Un mondo perfetto chiamato Le Mans

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Un mondo perfetto chiamato

Le Mans

 

(65 giorni a Le Mans)

 

Scusate il ritardo. Mi ero perso nei meandri del lavoro.

Tutto questo tempo senza scrivere nulla.

Ma si può?

No, non si può. Proprio adesso che i topi ballano e il gatto non arriva.

E in fondo sono contento. Di cosa?

Sono contento di assistere a quella rivoluzione che immaginavo e speravo. Il silenzio di un test che nessuno racconta (la Ferrari che gira a Spa insieme alla Porsche una settimana fa…voi come la vedete?) ma che intanto è avvenuto. Sta avvenendo. È successo. Come un evento dimenticato. Qualcosa di cui a fatica tra le nuove generazioni si possa annoverare tra le nozioni apprese dal mondo delle corse.

L’avvento di un test in pista.

Una magia se volete. Che sottintende tante altre verità sottaciute. La fine dei piloti come miti sportivi, il mito che cerca casa altrove. Dove forse è sempre stato, distrattamente dimenticato dai più superficiali, mai abbandonato dai suoi  veri amanti. Piaccia o no le “bandiere rosse ( senza nessun popolo alla riscossa…) di Melbourne hanno sancito la fine del “cavaliere del rischio”. Del pilota senza macchia e senza paura.

Sarà questo forse. A far pendere l’attenzione altrove? Non lo so. Non è nelle mie corde essere preveggente.

Ma una cosa la so.

Le Mans e le gare di durata rimangono prima di tutto una questione di sopravvivenza e non di velocità assoluta. Rimangono l’ultimo luogo in cui depositare coraggio e paura al medesimo tempo.

Rimangono.

Perché se dopo cent’anni la 24 Ore della Sarthe è la gara più famosa al mondo ci sarà il suo maledetto e sacrosanto perché.

Perché in un certo senso Le Mans rimane un mondo perfetto. Con un volante in mano e una macchina da condividere coi propri compagni di ventura.

La casa di quegli ultimi veri eroi.

Votati alla velocità.

Un mondo perfetto chiamato

Le Mans

 

(65 giorni a Le Mans)

 

Scusate il ritardo. Mi ero perso nei meandri del lavoro.

Tutto questo tempo senza scrivere nulla.

Ma si può?

No, non si può. Proprio adesso che i topi ballano e il gatto non arriva.

E in fondo sono contento. Di cosa?

Sono contento di assistere a quella rivoluzione che immaginavo e speravo. Il silenzio di un test che nessuno racconta (la Ferrari che gira a Spa insieme alla Porsche una settimana fa…voi come la vedete?) ma che intanto è avvenuto. Sta avvenendo. È successo. Come un evento dimenticato. Qualcosa di cui a fatica tra le nuove generazioni si possa annoverare tra le nozioni apprese dal mondo delle corse.

L’avvento di un test in pista.

Una magia se volete. Che sottintende tante altre verità sottaciute. La fine dei piloti come miti sportivi, il mito che cerca casa altrove. Dove forse è sempre stato, distrattamente dimenticato dai più superficiali, mai abbandonato dai suoi  veri amanti. Piaccia o no le “bandiere rosse ( senza nessun popolo alla riscossa…) di Melbourne hanno sancito la fine del “cavaliere del rischio”. Del pilota senza macchia e senza paura.

Sarà questo forse. A far pendere l’attenzione altrove? Non lo so. Non è nelle mie corde essere preveggente.

Ma una cosa la so.

Le Mans e le gare di durata rimangono prima di tutto una questione di sopravvivenza e non di velocità assoluta. Rimangono l’ultimo luogo in cui depositare coraggio e paura al medesimo tempo.

Rimangono.

Perché se dopo cent’anni la 24 Ore della Sarthe è la gara più famosa al mondo ci sarà il suo maledetto e sacrosanto perché.

Perché in un certo senso Le Mans rimane un mondo perfetto. Con un volante in mano e una macchina da condividere coi propri compagni di ventura.

La casa di quegli ultimi veri eroi.

Votati alla velocità.

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