

Pirro
e
Wolfgang Hullrich
(147 giorni a Le Mans)
Proprio nell’anima del collaudatore risiede forse la parte più nascosta ma al tempo stesso più preziosa della carriera di Emanuele Pirro. Come per quel biennio speso a Suzuka a sviluppare per conto della McLaren i motori di casa Honda, fino al punto da rendere l’unità motrice della casa giapponese un invincibile samurai a cilindri e pistoni. Prima un V6 nella sua ultima versione turbo del propulsore nipponico e poi un V10, all’alba della nuova era dei motori aspirati.
In tanti si fidavano di lui. Da Senna in giù. Fino all’ultimo meccanico adibito alla lucidatura delle carrozzerie delle vetture anglo-giapponesi.
Tanto abnegato lavoro a perpetrare il dominio di quei 15 successi avvenuti in 16 gare nella stagione ‘88. Non fosse stato per quanto successo a Monza poteva essere un en plein perfetto, per quell’ultimo anno dei propulsori sovralimentati.
Impressionante.
Mai successo.
Finisco per ricordare quel Gran Premio del Brasile ’89, il primo appuntamento del campionato a Rio. Il copione non pare essere mutato più di tanto. Senna in pole col solito secondo abbondante rifilato al collega di turno il prima fila al suo fianco. in questo caso la Williams Renault di Riccardo Patrese. In studio Poltronieri e Regazzoni insieme a Palazzoli. Pirro da pilota e collaudatore McLaren, per quella sola occasione è commentatore tecnico di supporto alla storica triade Rai. Nonostante una collisione al via tra Senna e Berger per la McLaren e il nuovo V10 sembra solo essere questione di tempo. Il solito, per arrivare ancora una volta vittoriosi al traguardo. La Ferrari con quel cambio semiautomatico al volante è una variabile troppo instabile per essere contestualizzata come un ambito vincente e vittorioso.
Già. Imprevedibile.
Troppo.
Tanto da superare al ventisettesimo giro la McLaren di Prost, dando l’idea che Mansell nel compiere il sorpasso del leader della corsa non se ne sia nemmeno accorto.
“L’ha superato in un modo…impressionante.”
Anche Clay di fronte alla manovra del pilota inglese rimane per un attimo di sasso.
“Per fortuna che si lamentavano del motore…”
Pirro è perplesso. Ha appena visto Mansell superare sul lungo rettifilo del Jacarepaguà la McLaren di Prost al doppio della velocità.
No.
Non erano in discussione le sue competenze di pilota e collaudatore. La McLaren anche quella stagione sarà la macchina dominante della stagione.
Ma per descrivere l’imprevedibile non può esserci che un incerto stupore, nutrendo stima per l’avversario e il conduttore.
Una pausa, a delineare un ritratto letterario in maniera diversa ma sicuramente altrettanto efficace. La resurrezione da incidenti impossibili (vedi Hockenheim con la Benetton), la voglia di non mollare per quei modi garbati ma estremamente risoluti. Un mite Ayrton, chiamandosi Emanuele. A fronte di una carriera ricca di soddisfazioni e successi, altrove, a Le Mans col marchio Audi e a quel “trio delle meraviglie” venuto a formarsi insieme a Frank Biela e sua Maestà Tom Kristensen.
Cinque vittorie per nove podi consecutivi dal ’99 al 2007, portando al successo per la prima volta nella storia della 24 Ore francese un motore Diesel, come avvenne nel 2006, sempre con Biela e Marco Werner.
Mite fiducia italica per un teutonico consenso. Wolfgang Ullrich, totem di lingua tedesca, pari a John Wyer in quel di le Mans, vuole Emanuele con sé. Non gli interessa la sua velocità, ma la consistenza di quelle lunghe sessioni di test nipponici portati avanti dal pilota romano.
Vuole appropriarsi totalmente di quella sua anima di eterno collaudatore. La parte più nascosta ma al tempo stesso più preziosa della carriera di Emanuele.
Dove i successi di casa Audi a Le Mans per oltre, conobbero un piede ferro.
Dentro una scarpa di velluto.
Grazie a un pilota italiano e un team manager austriaco dallo sguardo di ghiaccio.
E un immenso cuore da corsa.
Pirro
e
Wolfgang Hullrich
(147 giorni a Le Mans)
Proprio nell’anima del collaudatore risiede forse la parte più nascosta ma al tempo stesso più preziosa della carriera di Emanuele Pirro. Come per quel biennio speso a Suzuka a sviluppare per conto della McLaren i motori di casa Honda, fino al punto da rendere l’unità motrice della casa giapponese un invincibile samurai a cilindri e pistoni. Prima un V6 nella sua ultima versione turbo del propulsore nipponico e poi un V10, all’alba della nuova era dei motori aspirati.
In tanti si fidavano di lui. Da Senna in giù. Fino all’ultimo meccanico adibito alla lucidatura delle carrozzerie delle vetture anglo-giapponesi.
Tanto abnegato lavoro a perpetrare il dominio di quei 15 successi avvenuti in 16 gare nella stagione ‘88. Non fosse stato per quanto successo a Monza poteva essere un en plein perfetto, per quell’ultimo anno dei propulsori sovralimentati.
Impressionante.
Mai successo.
Finisco per ricordare quel Gran Premio del Brasile ’89, il primo appuntamento del campionato a Rio. Il copione non pare essere mutato più di tanto. Senna in pole col solito secondo abbondante rifilato al collega di turno il prima fila al suo fianco. in questo caso la Williams Renault di Riccardo Patrese. In studio Poltronieri e Regazzoni insieme a Palazzoli. Pirro da pilota e collaudatore McLaren, per quella sola occasione è commentatore tecnico di supporto alla storica triade Rai. Nonostante una collisione al via tra Senna e Berger per la McLaren e il nuovo V10 sembra solo essere questione di tempo. Il solito, per arrivare ancora una volta vittoriosi al traguardo. La Ferrari con quel cambio semiautomatico al volante è una variabile troppo instabile per essere contestualizzata come un ambito vincente e vittorioso.
Già. Imprevedibile.
Troppo.
Tanto da superare al ventisettesimo giro la McLaren di Prost, dando l’idea che Mansell nel compiere il sorpasso del leader della corsa non se ne sia nemmeno accorto.
“L’ha superato in un modo…impressionante.”
Anche Clay di fronte alla manovra del pilota inglese rimane per un attimo di sasso.
“Per fortuna che si lamentavano del motore…”
Pirro è perplesso. Ha appena visto Mansell superare sul lungo rettifilo del Jacarepaguà la McLaren di Prost al doppio della velocità.
No.
Non erano in discussione le sue competenze di pilota e collaudatore. La McLaren anche quella stagione sarà la macchina dominante della stagione.
Ma per descrivere l’imprevedibile non può esserci che un incerto stupore, nutrendo stima per l’avversario e il conduttore.
Una pausa, a delineare un ritratto letterario in maniera diversa ma sicuramente altrettanto efficace. La resurrezione da incidenti impossibili (vedi Hockenheim con la Benetton), la voglia di non mollare per quei modi garbati ma estremamente risoluti. Un mite Ayrton, chiamandosi Emanuele. A fronte di una carriera ricca di soddisfazioni e successi, altrove, a Le Mans col marchio Audi e a quel “trio delle meraviglie” venuto a formarsi insieme a Frank Biela e sua Maestà Tom Kristensen.
Cinque vittorie per nove podi consecutivi dal ’99 al 2007, portando al successo per la prima volta nella storia della 24 Ore francese un motore Diesel, come avvenne nel 2006, sempre con Biela e Marco Werner.
Mite fiducia italica per un teutonico consenso. Wolfgang Ullrich, totem di lingua tedesca, pari a John Wyer in quel di le Mans, vuole Emanuele con sé. Non gli interessa la sua velocità, ma la consistenza di quelle lunghe sessioni di test nipponici portati avanti dal pilota romano.
Vuole appropriarsi totalmente di quella sua anima di eterno collaudatore. La parte più nascosta ma al tempo stesso più preziosa della carriera di Emanuele.
Dove i successi di casa Audi a Le Mans per oltre, conobbero un piede ferro.
Dentro una scarpa di velluto.
Grazie a un pilota italiano e un team manager austriaco dallo sguardo di ghiaccio.
E un immenso cuore da corsa.
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