

La Ferrari blu
di
Roger Penske
(145 giorni a Le Mans)
Blu.
Blu Sunoco.
Una tonalità del tutto nuova per una Ferrari.
Rossa o mai più. Mica vero. Se sei americano e vuoi conquistare le nuove frontiere della velocità scrivendone favole da tradurre nel mondo della poesia per giri motore, c’è dell’altro. Con più altri, nobili e diversi protagonisti. Personaggi avvincenti di racconti (solo quelli però) a passo d’uomo.
Roger lo chiamavano il “Ferrari d’America” . Anche per aver corso a Le Mans in coppia col messicano Rodrìguez (Pedro), a bordo di una Ferrari 330 nel ’63, messa a disposizione dalla NART di Chinetti. Qualche anno dopo, quasi per tener fede a quella nomea con cui si era fatto strada nella nazione dello Zio Sam, una Ferrari finì per comprarsela davvero. Ma non per sfoggiarla semplicemente nei lunghissimi boulevard californiani di Los Angeles.
Tutt’altro.
Perché se di cognome fai Penske… allora la faccenda è articolatamente diversa. E per quella Ferrari che hai acquistato direttamente dal reparto corse del Cavallino hai in mente altri progetti e propositi che le strade fiorite degli altolocati quartieri di Hollywood.
Roger fa le cose per bene. Con quella vettura vuole vincere nelle gare di durata. Compra una 512 M e già che c’è si fa dare da Maranello anche i progetti originali della vettura, visto che nelle intenzioni del Commendatore ogni risorsa doveva essere impegnata nello sviluppo dell’ultima nata: la nuovissima 312 PB. Qualche soldo in più da investire nel futuro non guasta mai.
Solo che.
Solo che Roger, quella Ferrari ha in mente di smontarla per ricostruirla completamente. Ne esce un’arma letale in perfetto stile americano. Una “machine gun” made in USA che spara pallottole a ripetizione meglio del tamburo di una 44 magnum.
Daytona ’71 sembra lo scenario perfetto per un inizio folgorante. Roger affida quella sua creatura al piede e al cervello del connazionale Donohue. Amicizia vera. Oltre i contratti firmati dall’inchiostro mal riposto di una penna. Tra Roger e Mike quella voler affermarsi in ogni dove non vacilla mai, dopo aver cannibalizzato il campionato Can-Am del ’73 con la mostruosa (Porsche 917/30, una micidiale barchetta da 1200 cv), e aver vinto in ogni competizione americana dove abbiano partecipato. Si vuole andare oltre.
Sbarcare in Europa per far vedere e conoscere il proprio valore.
Un ex pilota diventato manager di se stesso e un pilota in possesso di una laurea in ingegneria meccanica. Abile nella messa a punto di quel loro Stradivari a motore, come pochi altri.
Da quel momento in poi se mai ci sarà spazio in pista, per questa vettura sarà coi soli team privati.
Roger e Mike ci credono. Sviluppano la 512 seguendo una strada completamente autonoma. Se la “loro” M fosse arrivata un anno prima non avrebbe reso così leggendaria la vita agonistica della 917. Nelle mani del duo americano la blu Ferrari d’America diventa un missile terra-terra.
Bella, sì.
Veloce, sì.
Daytona ’71.
Pole position facile facile. In gara si mette benissimo. Fino a una notte buia e assassina. Perché nella favole se qualcosa di brutto deve succedere spesso è proprio la notte che accade. Quando le tenebre vestite d’oscurità nascondono ogni cosa, agli occhi degli uomini. Comprese le loro paure. La 512 M esce malconcia da un incontro ravvicinato con un paio di 911. Finisce la favola, il sogno di vincere.
Ma non la voglia di arrivare fino in fondo.
Roger riprende a casa la sua bimba. La cura. Cerca come può di restituirgli la dignità che un auto da corsa dovrebbe avere, per quanto nastro adesivo ai box possano attaccare sulla sua carrozzeria. Una striscia dopo l’altra.
La storia si ripete a Sebring, con la vettura toccata dalla 917 di Rodriguez.
Tanta sfortuna per così tanta bellezza.
Una grande Bellezza che a Le Mans potrebbe trovare un epilogo leggendario. Steve McQueen che sventola la bandiera francese al via, la prima volta di una partenza lanciata a Le Mans, Donohue che è secondo, poco prima che il motore ammutolisca per sempre in prima serata, sul far delle otto e mezza. Le venti e trenta locali.
Non il lieto fine di una favola che possa legittimare tutto questo.
Solo un nome. Roger Penske.
E quella sua Ferrari Blu, da padre americano.
Perennemente ottimista.
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