

1000 km
a
Buenos Aires
(dopo Le Mans)
(152 giorni a Le Mans)
A Buenos Aires si disputa un tango lungo 1000 km.
Ignazio corre.
Sono tempi difficili i suoi. Di vite appese a una filo che sembra la corda di un funambolo al circo dei trecento all’ora, con la gente che spera di vederti morire, palla di fuoco in pista per chissà quale sadico e atavico motivo.
Guidare per essere veloci in macchina. Una bara volante ricolma di benzina.
Fu una morte assurda quella di Ignazio Giunti, anche agli occhi di quel tempo con 52 primavere sulle spalle. Tanto per essere certi che l’ipocrisia non abbia abbandonato le umane genti nel frattempo.
Morte assurda. Così fu definita. Un lutto, certo. Ma anche la consapevolezza di un mondo spietato (quello sì per davvero) come al tempo era quello delle corse, alle prese dopo quelle dolorose vicende argentine con lo scioglimento di uno dei suoi dogmi assolutistici.
I morti sono morti. Ai vivi resta sempre il peso delle scelte e delle responsabilità. A Beltoise toccò la croce dell’Unto, che no, era stato un atto criminale e assassino. Jean Pierre coerentemente si comportava da pilota, sapendo di dover riportare a qualsiasi costo la sua Matra ai box, pur se il regolamento sportivo al riguardo recitava ben altro.
Abbandonare la macchina in caso di guasto senza che ostacoli la corsa degli altri concorrenti. La gara è gara fino alla fine. Se non ti fucilano in pista ti fucileranno i team manager, i direttori di squadra più tardi al termine della corsa. Perché quella macchina finché può camminare deve camminare. Anche a spinta. E Beltoise la morte la conosceva bene per averla viste tante volte da vicino, rimettendoci quasi un braccio qualche anno prima a Reims, cercando di non dimenticare come solo un pilota credo possa comprendere e capire un altro pilota. Merzario si lanciò in mezzo alle fiamme per salvare il compagno. Parkes quella Matra l’aveva schivata per un pelo. Giunti di fronte a quella stessa macchina si trova semplicemente vittima impotente di una circostanza letale. Un fotografo vola oltre alla balaustra sopra ai box spinto di sotto dalla calca del momento. Arturo perse un amico e intese le circostanze che mossero il collega, senza pretendere di volerne giudicare la volontà di agonista.
Del fotografo si è persa memoria per sempre. Salvo un nome che appare anni dopo su un profilo Istagram: Lucio Solari. E quell’uomo che si pensava morto racconta molto di più di un semplice fotografo.
Serviva coraggio anche per questo. Merzario fu l’unico a buttarsi sulla Ferrari di Ignazio in fiamme, come cinque anni più tardi avrebbe fatto altrove, con altro e più illustre pilota.
Piloti.
Tutti correvano e tutti accettavano i rischi di quel pericoloso mestiere, mentre il mondo intorno a loro decideva di cambiare e rivedere i fatti sotto altra e più lieve prospettiva.
Era il rispetto. Quello vero tra uomini, di uomini senza tempo e un tempo. Senza macchia d’ipocrisia nelle parole. A volte per questo oltre che uomini si diventa eroi. Nel ’68 a Le Mans, Ignazio aveva portato al successo l’Alfa nella propria classe, dopo essere stato addirittura al comando della classifica assoluta con una vettura dalla cilindrata pari alla metà della GT 40 di Rodriguez e Bianchi, vincitori in quell’edizione della 24 Ore. La prima a essere corsa in tutta la sua storia in settembre dopo i disordini del maggio francese. Aveva dato il la alle vittorie di un modello, la 33, che per quasi un decennio sarebbe stato uno dei più vincenti di casa Alfa, dopo aver rischiato lo stesso anno di aggiudicarsi anche la Targa Florio.
Ma a Ignazio manca. Mancava sempre un chilometro. Forse anche meno per giungere ai box.
Il più duro per farne mille, come poi gli è successo.
Certamente, il più lungo di sempre da percorrere.
Dopo Le Mans, fino a Buenos Aires.
E la prossima corsa.
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